Who The Hell Is That Girl, il progetto creativo di Stefania Castelletti
Stefania Castelletti è una giovane creativa che ha avviato un nuovo progetto sul suo profilo Instagram Who The Hell Is That Girl, in cui si racconta attraverso collage e pop artwork.
Mentre stava concludendo il suo percorso di studi in Graphic Design allo IED di Milano, la designer 23enne ha lavorato in uno studio milanese di art direction per brand di lusso per poi approdare negli Stati Uniti per uno stage al MoMa di New York.
Noi abbiamo deciso di intervistarla e farci raccontare la sua esperienza, oltre che gli obiettivi e possibili sviluppi del suo nuovo progetto creativo.
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Ciao Stefania, parlaci un po’ di te e del perché hai deciso di avviare questo progetto creativo. Quando e da dove è nata la tua passione per il graphic design?
Terminato il liceo a Bergamo, ho deciso di intraprendere il percorso in Graphic Design a Milano perché insieme all’arte è una grande passione di famiglia. Mio padre ha sempre avuto l’abitudine di portarmi a un sacco di mostre, mentre mia sorella è un’interior designer. Avevo visitato NY per la prima volta nel 2014 ed ero stata proprio al MoMa, dove avevo avuto l’opportunità di assistere a sessioni di architettura e design.
Il loro approccio a queste discipline mi ha colpito molto perché veniva messo alle stesso livello dell’arte: lì è stato un colpo di fulmine e ho capito subito che volevo fare design, la mia arte. Dopo essermi laureata a luglio 2018 con un curriculum classico di grafica, ho visto che sul sito del MoMa c’era la possibilità di candidarsi per uno stage. All’interno dell’application ho inviato la mia lettera di presentazione dove ho raccontato proprio questo aneddoto. Dopo qualche mese avevo già perso le speranze, ma poi mi hanno chiamata per un colloquio.
Quanto pensi ti abbia preparato la prima “gavetta” nello studio di Milano prima di approdare negli States?
Il lavoro allo studio mi ha insegnato molto: innanzitutto mi ha dato una forma mentis nuova. Sicuramente contribuire allo sviluppo creativo di brand di lusso importanti mi ha fatto capire quanto sia importante ragionare per obiettivi e crearsi un modello mentale basato sul lavoro e l’impegno personale.
Com’è andata l’esperienza nella Grande Mela e com’è stato l’ambientamento negli Stati Uniti?
All’inizio ero completamente sola, non conoscevo nessuno ed è stato un po’ difficile. Vivevo a pochi passi dal MoMa, nello specifico a Midtown, ma svegliarsi la mattina e trovarsi da sola in mezzo a una città così vasta non potendo contare su nessuno non è stata una passeggiata. D’altra parte, personalmente ero abituata a vivere in una città “all’italiana”: accessibile, tranquilla, confortevole. Allo stesso tempo, però, il lavoro mi ha aiutata: mi sono subito ambientata in ufficio grazie a colleghi disponibilissimi e pazienti, mentre ho praticato molto l’inglese e conosciuto diversi italiani nella mia stessa situazione.
Cosa significa, per un italiano/a del tuo settore, vivere e lavorare a New York? Dovrebbe esserci molta competizione…
Mi è sembrato un posto molto meritocratico. Sicuramente, l’impressione è che se vali riesci a mostrare chi sei e puoi sentirti apprezzato. Nonostante ci sia molta concorrenza, la differenza che ho notato con l’Italia è che là, se sei bravo, ti danno dei riconoscimenti. Nel nostro paese, invece, questo non succede sempre: molto spesso dimostri quanto vali ma nessuno poi ti riconosce il merito premiandoti o concedendoti più responsabilità. Parlando in base alla mia esperienza a New York, io ho avuto molte responsabilità e questo mi ha sicuramente aiutato ad ambientarmi meglio.
Di cosa ti sei occupata nello specifico al MoMa?
Al MoMa lavoravo nel Department of Retail, ovvero il reparto che si occupa del MoMa Design Store. Il museo ha molti store al suo interno, ma ce ne sono anche altri due a Soho e Midtown. Mi occupavo di varie cose e il mio ruolo era ben definito, ma in molte occasioni ho potuto dare il mio contributo anche in altri team operativi. Ero l’unica stagista all’interno di un dipartimento molto grande.
Durante il mio percorso di stage, nel frattempo, ho avuto l’opportunità di ideare anche diversi lavori creativi, come le proposte relative al lancio dei nuovi prodotti durante la riapertura dello store programmata per il 2019. Il MoMa, infatti, ha chiuso per 4 mesi quest’estate e ha destinato 400 milioni di dollari per il restyling delle strutture. Io ho avuto la fortuna di partecipare a questo internship proprio prima della ristrutturazione, casualità che mi ha portato inevitabilmente a contribuire alle loro strategie.
Ricordo tanto fermento negli uffici: erano tutti molto agitati e felici, vista l’importanza di questo piano. Nel corso dei preparativi, ho potuto appunto lavorare sull’idea dei nuovi prodotti lanciati con l’apertura del nuovo store come borse in tela con scritte di artisti famosi sull’arte e anche uno Sky Umbrella. Oltre a questo, però, ho anche contribuito alla gestione del loro e-commerce e collaborato all’organizzazione di eventi e all’ideazione dei piani di marketing.
New York è da sempre una città vicina al mondo della pubblicità, del design e dell’arte, oltre alle altre cose. Cosa ti porti dietro dall’esperienza professionale al MoMa?
A Milano ho potuto sviluppare e far crescere il mio stile creativo. L’esperienza a New York, invece, mi ha dato più sicurezza perché quando sei molto giovane e ti danno fiducia ti senti automaticamente più sicuro di te stesso e dei tuoi mezzi.
Quando è nata la tua idea di ideare artwork e collage? Quali sono i soggetti che ami sviluppare di più?
Quanto son tornata in Italia sentivo la necessità di esternare, attraverso un progetto creativo personale, gli stimoli e le ispirazioni che avevo assorbito mentre mi trovavo negli States. Sicuramente, mentre lavoravo al MoMa il contatto con le opere d’arte mi ha influenzato. L’idea degli artwork mi è venuta dall’influenza di Corina Kent, suora “underground” che creava poster nel periodo di Andy Warhol. I collage, invece, sono nati grazie alle ispirazioni della fotografa Dora Maar.
Il progetto degli artwork si chiama Wisdom By Spotify. Il motivo? Sentivo il bisogno di rendere dal punto di vista visivo quello che provavo mentre ascoltavo le canzoni su Spotify. Nelle grafiche inserisco delle palette di colori e una tipografia in base a quello che provo, appunto, mentre ascolto la canzone. Lo trovo prima di tutto un modo per esternare il mio stato d’animo, oltre che la mia personalità creativa. Riguardo ai collage, invece, mi occupo di farli completamente a mano: molte persone non se lo aspettano e pensano li faccia digitalmente, ma l’attività manuale mi aiuta a distaccarmi da un processo digitale da cui siamo abituati e bombardati quotidianamente. E’ bello tornare alla manualità: utilizzo pezzi di giornale, ritaglio, incollo e scannerizzo (inevitabilmente…) e molte volte però modifico anche successivamente in digitale. Resto comunque dell’idea che le opere digitali non saranno mai uguali a quelle originali, su base analogica.
Questo profilo ti sta aiutando a farti conoscere? Se si, quali progetti paralleli stai seguendo?
Il mio primo obiettivo è condividere questo progetto creativo con gli altri e raccontare quello che faccio. Per quanto riguarda progetti alternativi, proprio venerdì scorso ho partecipato ad un evento del Tate di Londra dopo essere stata scelta per un concorso legato alla figura di Dora Maar. Il museo, infatti, aveva deciso di organizzare una mostra su di lei e aveva perciò indetto una selezione per invitare gli artisti che avrebbero ideato i migliori collage a lei dedicati. Il weekend londinese è andato molto bene e ho avuto la possibilità di vedere il mio collage esposto al museo, oltre ad altre mie creazioni. Un’esperienza fantastica.