L’attivismo sui social: posizionamento politico o contenuto performativo?
L’attivismo sui social è diventato ormai molto diffuso perché, si sa, le piattaforme sono uno strumento decisamente efficace se si vuole intensificare e amplificare un messaggio coprendo un pubblico più vasto.
Questo nuovo approccio ai social, e in particolare a Instagram, rappresenta un modo di fare battaglia politica e, appunto, attivismo sociale, concentrando i propri sforzi nella creazione di contenuti personali che possano informare, indirizzare o semplicemente sensibilizzare una folla di persone che su altri media non trovano la possibilità di avvicinarsi a determinati temi per motivi di natura strettamente editoriale.
Ora, che questo rappresenti uno dei risvolti inevitabili dei social media è sicuro, e da parte nostra non è nemmeno corretto catalogarlo come giusto o sbagliato perché è altrettanto lecito che le persone scelgano il luogo più adatto per portare avanti le proprie battaglie, se quest’ultimo dà loro la possibilità di raggiungere un pubblico più vasto.
Altrettanto lecito, però, è sottolineare le differenze sostanziali (e nemmeno tanti sottili) che ci sono tra due tipologie di attivismo, molto simili ma decisamente diverse dal punto di vista degli obiettivi.
Ecco perché, proprio per questo motivo, molti studiosi hanno iniziato a identificare certe pratiche come prettamente “performative” e quindi dedicate solo ed esclusivamente a obiettivi considerati personalistici. Un modo per raggiungere sì un pubblico più ampio rispetto ad altre piattaforme o mezzi di comunicazione, ma che porta con sé un lato oscuro da molti difficile da riconoscere al primo impatto: il ritorno performativo, appunto.
Mostrarsi agli altri con obiettivi performativi, in sé, non è un comportamento da condannare perché insito in ognuno di noi. Allo stesso tempo, però, questo tipo di ritorno non dovrebbe essere collocabile all’interno di una sfera di lotte che per importanza etica, sociale e appunto politica vanno oltre il semplice posizionamento web.
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L’attivismo sui social è un fenomeno che Instagram guarda assolutamente di buon grado, come dimostrano diversi studi sull’algoritmo che ci spiegano molto bene che quest’ultimo tenda a preferire contenuti in cui mostrare la propria indignazione, o come abbiamo anticipato prima divisivi e di stampo politico, che creano discussione e dibattito collettivo.
In questo senso, per esempio, è giusto segnalare una ricerca condotta dall’Università di Yale che ha confermato un dato molto significativo: quando scriviamo contenuti indignati, la community online risponde positivamente perché la piattaforma ha interesse nel dare più copertura al nostro post e questo si traduce inevitabilmente in un livello di interazione maggiore.
Cosa vuol dire questo? Che l’algoritmo premia a tutti gli effetti la componente d’indignazione. Il dipartimento di Psicologia di Yale, attraverso appunti delle analisi portate avanti nel tempo, ha dimostrato che la rabbia di stampo politico e sociale non è diventata un linguaggio diffuso per caso, ma perché è l’algoritmo ad averla scelta come contenuto di discussione più adatto alla piattaforma di riferimento.
“Gli incentivi dei social media stanno cambiando il tono delle conversazioni politiche online”
William Brady, ricercatore, Yale Psichology Department
Come è stato condotto questo studio? I ricercatori hanno preso in considerazione 12,7 milioni di tweet pubblicati da 7331 utenti, attraverso l’aiuto della machine learning per valutare la loro influenza sul pubblico nel tempo. Il risultato ha portato a confermare ciò che veniva teorizzato, ovvero che è l’algoritmo a dare più visibilità ai tweet, che a sua volta vengono premiati con un numero maggiore di commenti, like, repost, condivisioni. Di conseguenza, questa dinamica ha portato gli utenti – inevitabilmente – a ideare sempre più post, tweet e status che ponessero al centro proprio la protesta di stampo politico.
Lo studio in questione ha dimostrato inoltre che sono proprio gli utenti più moderati, e quindi quelli meno estremisti (o divisivi) nei propri interessi e nel proprio posizionamento (pubblico e politico) ad essere più attratti nell’apprezzare, attraverso le interazioni, i post indignati.
Attivismo sui social: quando diventa puro intrattenimento performativo?
L’avvento dei social è stato assolutamente positivo, sia per chi lavora dietro le quinte che fuori: questo è innegabile. Quando però una tipologia precisa di presenza social diventa puro concetto performativo, senza che esso dia spunti, informazioni o contenuti rilevanti per le persone?
Il web è diventato, per definizione ormai, uno strumento di aggregazione e condivisione. Un macro-spazio che, a sua volta, ha fatto nascere diverse figure operanti sul web tra cui, appunto, gli attivisti e attiviste che utilizzano Instagram per diffondere le proprie lotte a un pubblico più ampio. Allo stesso tempo, questo fenomeno ha portato ad una personalizzazione delle lotte rendendo tutto dipendente dalle statistiche e dagli insights, indebolendo quindi in un certo senso quella stessa lotta.
Quest’ultima, che dovrebbe quindi rappresentare qualcosa al di fuori dei numeri, delle performance personali e delle categorizzazioni semplicistiche dei caroselli, rende quell’argomento di riferimento un mero mezzo per aumentare il proprio pubblico, brandizzando di fatto un dibattito e aumentando la percezione personalistica degli utenti nei confronti di quell’attivista che ha condiviso il post. Un modo, prima di tutto dalla parte del creator, per millantare ai suoi follower il suo modo di dire le cose e non realmente ciò che sta dicendo (che, molto spesso, passa addirittura in secondo piano).
Alleghiamo di seguito una considerazione fatta da Irene Graziosi, blogger e fondatrice insieme alla nota youtuber Sofia Viscardi di Venti. Il testo proviene da un suo articolo pubblicato sul magazine Siamomine, dove appunto si parla di attivismo performativo.
“Se da un lato un social come Instagram può aiutare a fare squadra, a unire soggettività in collettività contro un dominio che fuori dallo schermo di un cellulare permette ancora troppa poca risonanza, dall’altro è elevato il rischio che chiunque si immerga nella marea di like e commenti inizi a percepire lo spazio virtuale come un palcoscenico su cui esibirsi: l’attivismo diventa una performance.
Per performatività dell’attivismo si intende proprio la tendenza a scivolare verso le rotte dell’ipocrisia e della svalutazione delle istanze di lotta in favore di un tentativo di porsi come singolǝ al centro del discorso online. Troppo spesso, infatti, oggetto di discussione su Instagram non sono tanto questioni relative alle istanze di lotta sociale ma il modo in cui unǝ singolǝ attivista si espone o meno sull’argomento.
La performatività su Instagram non è da condannare: lo facciamo tuttǝ, ognunǝ di noi mostra e si mostra. La performatività diventa condannabile quando, per qualche like e qualche follower, ci si appropria di questioni che non dovrebbero essere performabili, come le dispute, gli argomenti, i temi per cui altrǝ lottano da sempre con le unghie e con i denti.
Qual è il senso di scrivere post che fanno leva sul pietismo in occasione della Pasqua per ricordare quanto è sbagliato mangiare gli agnelli se poi si passa l’altra metà del proprio tempo a far capire esplicitamente quanto poco si conosce la filosofia antispecista? Forse a guidare un’azione simile è la voglia di like, non di fare attivismo.
Perché nascondersi dietro l’idea di voler parlare di tematiche sociali e attuali quando, una volta aperto il profilo da influencer, si cerca soltanto di infilarsi tra le fila dellǝ attivistǝ più famosǝ in cerca di follower e numeri?”